Il Corriere della Sera
Renato Simoni
I nostri soldati
30 Ottobre 1911 – Anno 36 – Num 300, pp 3
Dopo un incipit squillante ( "Quel che fanno in Tripolitania i nostri soldati ci commuove e ci esalta. Son sempre nuove meraviglie! Sono esempi di ardire stupendi, sono prove mirabili di resistenza, sono rivelazioni di energie d’acciaio, sono morti semplici e sublimi."), a cui corrispone simmetricamente l’explicit retorico ( " Mani massicce dei nostri appuntati, goffe nei gaunti di filo, come ben sapete ora costruire la storia!") il testo prosegue alternando all’esaltazione dei "soldati d’Italia" toni polemici nei confronti della stampa e della diplomazie estere (" Il mondo guarda un po’ arcigno, un po’ malizioso; il mondo inventa fole meschine contro di noi e ci lesina per le sue stampe le vittorie che furono conquistate col sangue. Ma i soldati d’Italia si coprono d’onore."), per arrivare al centro dell’articolo: la descrizione bonaria e paternalistica dei "fanciulloni" "impacciati nella divisa nuova", paesani incolti che girano "straniti per la città" "chiusi nel loro oscuro dialetto", mano nella mano con qualche "tozza compaesana", "gravi, insieme accorati e consolati"". Ritratti da Simoni mentre sgranocchiano nei crocicchi le castagne arrostite, questi ragazzi "sembrano capaci soltanto di una inerte obbedienza. Paiono sottomessi a tutto; alla scala gerarchica che parte dalla loro timidezza e sale su verso aaltitudini nebulose dove traluce un berretto di generale; agli scarponi quadrati che appesantiscono il loro passo, allo zaino che curva le loro schiene, alla città che non conoscono"; ma con un vero coup de théatre ecco che questi "novi alla guerra, nati pur ieri, mostrarono la tranquillità, l’allegrezza di soldati provati dal fuoco. La morte non li sbigottì. Tutti fecero il loro rude lavoro con animo sereno e con fulminea audacia, perché- e qui Simoni inserisce ad hocl’importanza del sostegno del cosiddetto"fronte interno"- sentivano dietro di loro il paese che aspettava e credeva, perché sapevano di rappresentare la loro terra lontana e di aver avuto un preciso mandato". Coerentemente con l’andamento dell’articolo, la parte conclusiva intende rovesciare l’immagine superomistica del combattente, sostituendo agli eroi semidivini, "creature di eccezione grandeggianti di molti cubiti sul loro tempo, secondo la "falsa visione" consegnataci alle "storie e le arti", "l’uomo comune" "l’operaio che lavora nelle nostre case" " il nostro compagno di tramvai", "lo studente che esce vociando dalle lezioni". "Non occorre che un lungo ordine di lombi abbia affinato il suo sangue; non occorre che gli Iddii celesti o marini si incomodino per generarlo. Esce da tutte le case , dai palazzi e dalle capanne, è la folla, è la nazione". In questo quadro di riscossa del soldato qualunque, significativo il richiamo a Mario Bianco, uno dei giovani eroi delle Canzoni delle gesta d’oltremare, risucchiato nella folla anonima dei morti per la patria: "Sbocca dalle oscurità, appare nel rischio, scompare poi nella morte o nell’oscurità, ha vent’anni e si chiama Mario Bianco, si chiama con mille nomi che ignoriamo e che ignoreremo" "Non è gonfio di pensieri astratti e sublimi. […] Forse nei dieci minuti prima dell’assalto pensa ad una fanticella cittadina che sgonnella a far le spese investendo due soldi in una cartolina illustrata da mandare al suo soldatino lontano; o rivede con la gola strozzata dalla commozione un desco di povera gente con una vecchina che soffia tra le stoppie sotto la polenta"