Guido Milanesi
Asterie
Bemporad, Firenze, 1913
Si tratta di una raccolta di racconti ( Dal diario di un cacciatorpediniere in guerra; Al faro di Kerdonis; Un pranzo; A Bengasi; A Derna; La piccola Schichan) di genere e ambientazione diversi, il cui esile legame è da ricercare nell’attività professionale dell’autore, ufficiale della marina militare. Significativa l’indicazione in parentesi che chiude le note di diario "di un cacciatorpediniere in guerra" scritte in quei cruciali giorni, 26 settembre 1911-1 ottobre 1911, che segnano l’inizio delle ostilità italo-turche: " Brano interrotto per la partenza del cacciatorpediniere per Bengasi. Ma il diario prosegue e sarà pubblicato tutto in un prossimo volume, quando l’Autore sarà di ritorno". L’esperienza della guerra coloniale è alla base di due dei racconti di Asterie, A Bengasi, datato "novembre 1911"(pp,99-115) e A Derna, datato "4 dicembre 1911" (pp.117-139). Il primo è il resoconto di seconda mano dello sbarco italiano a Tripoli: a La Spezia, da dove il cacciatorpediniere da lui comandato sia per salpare per raggiungere la nave ammiraglia a Bengasi, Milanesi incrocia l’amico e commilitone Angelo Frank, che sbarca da una nave ospedale, gravemente ferito. Il colloquio tra amici assume il tono di un’esercitazione oratoria arricchita da indicazioni topografiche lirico-idilliche : "Bisogna che quest’ Italia levi il suo aspersorio ripieno del suo sangue, ora, e le benedica, le consacri di nuovo " "le cose immobili che erano su quella costa […] prima che l’Italia vi ridiscendesse, dopo secoli…" (p.102) " Il ciglio delle dune limitava l’orizzonte loro: sulla loro sinistra, il cimitero cristiano s’elevava un po’ più alto di questo ciglio e le punta Giuliana scuoteva nel cielo torbido le verdi capellature di alcune palme agitate dal vento: sulla loro destra, un subbuglio di onde e di sabbia precisava la punta Busheiha; e Bengasi, i minareti, la Berka, erano spariti. L’avvenire d’Italia era nei loro petti ed in questo lembo di terra chiuso. Due cannoni affondarono le ruote nella sabbia, faticosi vomeri di vittoria"(p.105) "-Avanti!- grida questo ferito[…]- Avanti!- e lo segue la colonna magnifica su su, fino a coronar le dune, la fronte al Sud, verso la sterminata terra che dovrà ritornare Italiana"(p.106). Quasi inevitabile, in questo quadro, la comparsa di scorcio anche di uno dei primi caduti, il guardiamarina Mario Bianco, della omonima Canzone dannunziana. La fede interventista di Milanesi lo porta, fra l’altro, a cercare lo scontro con gli oppositori della guerra, ridicolizzandoli: " Io vedo una qualsiasi città d’Italia in un giorno di comizio; e un oratore di viltà, forte delle quattro elementari, arringare una folla, grottescamente vestita di cappellacci neri e di cravatte simboliche. La sua parola turgida, riallaccia malamente frasi non sue e che nessuno comprende, ma che tutti applaudiscono con fervore ecc…"
A Derna, invece, è il racconto dell’opposizione fra "la crudeltà vile" di un vecchio bimbashi turco e il "magnanimo dovere" di un giovane capitano, la cui nobiltà è apprezzata, invece, dal colonnello italiano che stringe con lui un gentlemen agreement . La struttura del testo è composta da quadri staccati, il primo dei quali si presenta come un bozzetto di gusto folkloristico avente come personaggio centrale "il bimbashi di Derna- tre nomi seguiti da un ’bey’", "reso rotondetto dalla lukumia e dall’ozio", vera macchietta di governatore turco pigro e furbastro: "nessuno sapeva esattamente che cosa egli avesse fatto in queste campagne che citava sempre... V’era chi diceva che nella guerra greco-turca egli fosse stato bellamente rimandato a Costantinopoli, per certe sue teorie strategiche basate sul principio delle spalle, e che si era starti obbligati a richiamarlo dallo Yemen, perché partito pieno di debiti, v’era stato un periodo nel quale le sue tre mogli avevan messo su carrozza a Costantinopoli"(p.118). Questa sorta di miles gloriosus, "poco militarmente vestito dalla cintola in su, della sola camicia, non sempre bianca, e senza collo sempre", ha il suo palcoscenico nel "Caffè della Piazzetta", vicino alla sede del Banco di Roma, luogo strategico in cui recita le sue vanterie anti-italiane: "Gli Italiani' E chi sono questi Italiani' Quelli che Menelik prese a pedate' […] Vengano pure! C’è questa per loro- e indicò la punta del suo largo stivale- Gl’Italiani!... I macaronadgì! Burdà! I funiculì-funiculà! Burdà!... […] E soddisfatto e tronfio si rivolse ai due capitani ripetendo la sua risata di denti neri, e riportando sulla fronte il fez che nella sfuriata gli era andato di sghimbescio sulla testa, come un turacciolo di bottiglia storto". Con il progredire della conquista italiana, dalla Tripolitania verso la Cirenaica, il bimbashi sviluppa una vera ossessione ("Gli Italiani! Ah! Questa parola! Questa orribile parola che ormai dilagava intorno a lui, ah! Come gli rendeva pesante questo suo regno di Derna!"), che lo porta a contrapporsi al deuteragonista del racconto, un giovane capitano "dai lineamenti fini, dallo sguardo mite, composto di gesto e di parola, elegante, nitido […] figlio d’un ricco signore dall’Anatolia, nato a Smirne, educato a Saint-Cyr", che impersona "una Turchia migliore, libera da barbarie, purificata da selvaggi despoti"(p.124). Impostati i termini dello scontro, Milanesi, con un’ellisse non quantificabile in termini di giorni o settimane o mesi, riprende la vicenda dopo la conquista di Derna: al Caffè della Piazzetta sono seduti "i nuovi venuti tra lo scoppio delle granate e i fantastici fasci dei proiettori", e se da un lato si ride del ridicolo bimbashi, ormai fuggito dalla città con tutte le sue tre mogli, dall’altro si racconta con ammirazione della lettera che ogni giorno il giovane, colto e civile, capitano turco riesce a far arrivare dalle trincee del campo arabo alla moglie rimasta in città grazie alla collaborazione dell’altrettanto signorile e civile Colonnello italiano. Nell’ultima scena, la feroce stupidità del bimbashi che non si ferma davanti a niente manda a morire nella notte il nobile capitano con i suoi nella striscia scoperta, "dove finiscono le palme": "in quel momento sentì davanti a sé un essere la cui anima soverchiava di troppo la sua: sentì la sua bieca rozzezza asiatica confondersi al soffio d’una nobiltà semplice e trionfatrice. Egli era il passato della razza, e questo era l’avvenire; egli la crudeltà vile, e questo il magnanimo dovere; l’uno la vecchia pianta marcita, l’altro, il giovane innesto"(p.137).Nella "Illustrazione italiana" del 12 maggio 1912 verrà proposta ai lettori una lettera aperta di Guido Milanesi, presentato come comandante del cacciatorpediniere “Strale” in Cirenaica e autore di alcune raccolte di “novelle marinaresche” ( Thalatta, I Nomadi). L’occasione è l’invio da parte dell’editore Treves al Milanesi delle bozze della sua raccolta I Nomadi: il Milanesi confessa l’attuale estraneità dalla propria scrittura ante guerra ( “Suppongo che tra me e queste carte- che pure devo aver scritto io, non c’è dubbio- sia passata una lama inesorabile […] e poi che due mani invisibili abbiano spinto me da un lato ed esse dall’altro fino […] a renderle estranee a me” “ Ma chi le ha scritte' Io'” “Sa cosa farei' Tirerei un gran frego su ogni pagina, per scriverci sopra una sola parola…: Italia, Italia, Italia” ) e dà voce alla solita propaganda nazionalista: “Noi, molecole attive d’Italia, ora viviamo di febbre: della febbre puerperale della nostra grande madre che da poco ha dato alla luce un figlio da lungo tempo atteso:l’Italiano. [..] Eccoli qui gl’Italiani, come li han sognati i nostri Grandi: e li benedica Iddio!”
La parte migliore è la descrizione, pur sempre enfatica, dell’attesa del combattimento marittimo :”Ieri tutto questo scafo mio, vibrava della cupa voce del cannone davanti ad un certo Bu-Kleifa nella Sirte. Da mesi la bandiera di combattimento testa giorno e notte a riva: i siluri carichi, brontolano d’impazienza nei tubi quando le macchine correndo sussultano e tuttiquesti marinai che non dormono più, che saltano ai cannoni come limatura di ferro al magneto se la mia mano si levi, che bisogna frenare e trattenere sempre- sono un tale spettacolo di grandiosa bellezza da riempire tutta l’anima e far diventare meschina ogni altra cosa.”Nell’“Illustrazione Italiana” dell’ 11 maggio 1913 il volume è recensito con questa parole:”Milanesi tocca delle nuove sponde italiane in Libia” nei suoi “bozzetti di mare” che sono tutto “un fremito italiano, un movimento di caratteri, di tipi; movimento rapido, quasi vertiginoso. Le nuove terre possono far nascere nuovi scrittori, poiché quel mondo arabo, divelto per più secoli dal progresso civile, presenta fondi da scandagliare, […] fisionomie fisiche e morali da dipingere. Tutto non vi è basso, odioso, brutale. Un nobile tipo è descritto dal Milanesi nelle belle pagine A Derna, forse le migliori del libro."