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Giovanni Pascoli

L'ora di Barga

Mondadori, Milano, 1956

Nel volume di "Prose" curato da Augusto Vicinelli per Mondadori nel 1946, alle pp.557-569, con il titolo "La Grande Proletaria s'è mossa..." è raccolto il celebre discorso pascoliano "L'ora di Barga", «detto nel teatro di Barga il 26 novembre 1911 alle ore 15 nel mentre stesso- come si afferma nella nota- che in Libia avveniva l’avanzata su Ain Zara», poi raccolto da Maria Pascoli, insieme alla poesia libica, l’ultima di Pascoli, Notte di Natale, nell’antologia postuma Limpido rivo. Prose e poesie di Giovanni Pascoli presentate da Maria ai figli giovinetti d’Italia ( Bologna, Zanichelli, 1912), di poco successiva all’altra operazione editoriale di Zanichelli, Poesie varie, a cura di Maria Pascoli pubblicata il 10 giugno 1912, raccolta di poesie aperta dalla "Notte di Natale", l’ultimo lavoro poetico "scritto con tanto amore per la nostra patria".Il battage pubblicitario intorno agli interventi propagandistici di Pascoli sulla guerra di Libia era cominciato subito dopo la conferenza di Barga: se il 24 dicembre 1911 l’ «Illustrazione italiana» aveva pubblicato con un certo risalto l’epigrafe dettata da Pascoli per l’Album augurale che una rappresentanza di studenti italiani avrebbe consegnato a Tripoli ai “fratelli combattenti per le fortune della Patria”.( “Da Roma e dalle più nobili città d’Italia- noi studenti delle Regie Università e dei Regi Istituti Superiori- veniamo alle coste libiche fra Tripoli e Tobruk- a vedervi il primo grande esercito nostro militante oltre mare- dopo quelli di Scipione e di Metello- a vedervi congiunte e con migliori auspici riprese le nostre due grandi storie- dai loro due più gloriosi momenti- ascendiamo le rapide navi discendiamo le improvvise trincee- dove con gli occhi ai segnali col fucile in pugno avanti le macchine accanto ai cannoni-aspettate il grido "Avanti Italia!""- veniamo a gridarvi i nostri animi di fratelli- a festeggiare in famiglia con voi la festa intima della rigenerazione- a dirvi grazie di avere accresciuta e abbellita con il vostro esempio altissimo- la somma dei nostri doveri- e avere messo luce e ardire nuovo nelle nostre scuole- e nei nostri cuori l’inestinguibile desiderio- di essere pari a voi cioè pari all’Italia quale fu e quale sarà- o marinai o soldati o volatori- maestri a noi- di semplicità di umanità di fortezza di eroismo e di martirio"- Nel Natale del Cinquantesimo della Patria.), il «Corriere della sera», dopo aver recensito il 3 gennaio 1912 in terza pagina l’ "Inno a Torino" , e aver informato i lettori nel numero del 18 febbraio 1912, sotto il titolo Il commosso commiato di Pascoli da Castelvecchio , dell’intenzione del Pascoli di « pubblicare un volume di discorsi patriottici con molte pagine nuove, a beneficio dei feriti d’Africa», il 3 marzo, sottolineava, in un breve trafiletto di terza pagina ( Le canzoni di D’Annunzio e Giovanni Pascoli) la consonanza di intenti dei due massimi Vati italici intorno alla guerra: «Gabriele D’Annunzio ha regalato all’amico suo sincero e affezionato Pascoli le sue ultime Canzoni, con questa dedica gentile: « A Giovanni- queste dieci Canzoni – che non hanno l’ala- Della sua orazione" Gabriele «dalle Laude, Febrajo 1912». La comune intonazione patriottico-nazionalista delle recentissime prove di letteratura civile dei due poeti è evidenziata con forza polemica da Ettore Janni nell’ampio necrologio pubblicato dal «Corriere della sera» del 7-8 aprile 1912: ascritto Pascoli al «partito di Gabriele D’Annunzio », che è ormai il «solo dei tre grandi poeti che rimanga alla sicura gloria dell’Italia- e agli schiamazzi dei piccoli italiani», si rifiuta per lui l’etichetta di «"pacifista" ottuso che condanna la guerra anche se la guerra è un giorno la necessità della patria, il "pacifista" che si confonde con l’internazionalista rivoluzionario e ne appare come la contraffazione smascolinata».A sostegno di ciò, Janni cita, nel giorno « ch’egli è morto nell’Italia guerreggiante», «quelle strofi del suo inno a re Umberto che possono essere tenute per l’inno della nuova Italia: "L’Italia che vive nel sole,/ che vuole i suoi rischi e i suoi vanti,/ …. San Giorgio o San Marco" . Le marre [ zappe] e le trombe, le scuole pensose e i cantieri sonanti: e avanti, e sia guerra, San Giorgio, San Marco, Savoia! L’inno dell’ora ardita, dell’ora marziale, dell’ora serena e forte non ha come la sua marcia ne’ novenari bersaglieri di questo poeta che fu accusato di mitezza menna ' ». E il giorno successivo, 9 aprile, sempre il «Corriere della sera» in terza pagina stampa il testo dei telegrammi di cordoglio inviati dal marchese Guiccioli, cavaliere d’onore della Regina Madre e dal ministro Leopardi-Cattolica: « L’anima di Giovanni Pascoli vivrà immortale nella sua grande opera di letterato. Il suo discorso al popolo di Barga resterà scolpito nel cuore di tutti gli italiani come una profetica visione del suo patriottismo»; «L’armata si inchina reverente alla salma di Giovanni Pascoli ricordando con memore riconoscenza che la voce del poeta illustre e gentile risuonò per l’ultima volta a celebrare i marinai e i soldati d’Italia rinnovanti nelle terre di Libia le glorie latine».
Morto Pascoli, la propaganda arruola la sorella Mariù: il 9 giugno il «Giornale d’Italia», in terza pagina con il titolo Le opere inedite di Pascoli- "Poesie varie"- Un volume con prefazione della sorella Maria , annuncia la pubblicazione, il 10 giugno, da parte di Zanichelli delle Poesie varie di Pascoli con prefazione di Maria di cui si riportano, di seguito, alcune frasi: «Col suo ultimo lavoro poetico, scritto con tanto amore per la nostra patria, apro il volume. Con ciò ho creduto di far cosa grata a lui e ai nostri soldati e marinai che combattono ancora in Libia. Essi ne ebbero conforto nel Natale! Lessero la dolce ode nelle trincee e passarono la sacra notte ( essi stessi glielo scrissero) proprio come ivi è descritta. A me risuona sempre quel verso ch’egli ogni tanto ripeteva sfiorandolo appena con la voce, e dandogli una velocità come d’ale: "L’Italia! L’Italia che vola!" Oh! Il trionfale inno ch’egli già meditava e che gli eroici combattenti attendevano sicuri da lui! Non verrà: l’ha portato via con sé insieme a tante altre cose destinate alla sua Italia diletta!». Nella terza pagina del «Corriere della sera» dell’11 agosto 1912 si riportano invece dei ricordi di Mariù Pascoli, « trascritti da un collaboratore della «Tribuna», volti a sottolineare ancora una volta il patriottismo di Pascoli e la sua adesione alla guerra: " Quand’ebbe l’annunzio della prima vittoria italiana in Libia, il poeta [Pascoli] n’ebbe tanta gioia che fece stappare una bottiglia e gridò:"Viva l’Italia" e fece illuminare la casa… Aveva quasi delle previsioni: quando parlò a Barga della guerra accennò ad un’azione che proprio in quel momento si compiva"»
"L’ora di Barga", più conosciuta dal suo incipit "La Grande Proletaria s’è mossa", si presenta, da un lato, come una sintesi strumentale dei due temi fondamentali, agitati dalla propaganda nazionalistica in favore della guerra di Libia: il tema dell’emigrazione e quella del riscatto dell’orgoglio nazionale dalle sconfitte abissine, per cui l’Italia, benchè «proletaria» è anche «grande » nella marcia di tutte le sue classi sociali verso la Libia da colonizzare («Benedetti voi, morti per la Patria! […] Qual festa vi faranno i morti vincitori di San Martino e Calatafimi! […] Oh! Non dimenticate i più dolorosi,e, se si può dire, anche i più valorosi, morti di Amba Alagi e Abba Garima. Sono, essi, gli ultimi martiri d’Italia: sono ancora sulla soglia. Abbracciate il maggiore Toselli così degno di guidare un’avanzata audace su Ain Zara! […] Benedetti, o morti per la Patria! […] Nel sacro cinquantenario voi avete provato ciò che era voto de’ nostri grandi che non speravano si avesse da avverare in così breve tempo, voi avete provato che sono fatti anche gli Italiani»). D’altro canto, però, in questa conferenza, Pascoli riprende altri temi centrali del suo originale nazionalismo, sentimentale più che politico: al poeta sono, infatti, estranei i temi dell’imperialismo militarista e dell’esercito, secondo una valutazione ancora deamicisiana, si esalta soprattutto la forza unificante e quindi il significato civile: « Il roseo e grave alpino combatte vicino al bruno e snello siciliano, l’alto granatiere lombardo s’affratella col piccolo e adusto fuciliere sardo […] Scorrete le liste dei morti gloriosi, dei feriti felici della loro luminosa ferita: voi avrete agio di […] ripassare la geografia di questa che era, tempo fa, una espressione geografica. E vi sono le classi e le categoria anche là: ma la lotta non v’è, o è lotta a chi giunge prima allo stendardo nemico, a chi prima lo afferra, a chi prima muore. A questo modo là il popolo lotta con la nobiltà e con la borghesia»(pp.562-563).
Il velleitarismo retorico del Pascoli libico è oggetto di parodia in un brano del Pasticciaccio brutto di via Merulana di Gadda (Milano, Garzanti, 1997 XII ed., p.192), il dialogo tra Zamira e il brigadiere Pestalozzi: «Chi è, ar giorno d’oggi, […] che nun cià du sorelle da marità' Ce l’aveva perfino quer gran poeta patriottico, che cià fatto tanto piagne, de Natale, in Libia ad Ain Zara, col sesto bersaglieri… che se chiamava, perché adesso è morto, poveretto! Come se chiamava' Giovanni…sapete, quei posti dove ce cresce l’erba […]Giovanni Pascoli![…] » « Piantatela con l’erba e col fieno, e coi prati e coi pascoli. Lasciate in pace i morti». Come nota Aldo Pecoraro commentando il colloquio alla luce di quest’ultima proposizione, «l’intimazione del brigadiere Pestalozzi a «Lasciare in pace i morti», assume una risonanza che travalica i limiti del contesto. È il giudizio del narratore che si avventa sul finale della prosa pascoliana, incriminabile, alla luce dell’ideologia gaddiana, perché soffoca le vittime di guerra nella seconda morte della retorica. La figura del «poeta che cià fatto piagne" si ritorce in una accusa funesta contro Pascoli, datore di morte e concausa delle lacrime per i morti, in quanto corresponsabile della propaganda per la guerra di Libia» (A. PECORARO, Gadda, Bari, Laterza, 1998, pp.175-176)
Su questo tema, Giuseppe Pontiggia in "I contemporanei del futuro " inserisce "Una chiosa su Marx e su Pascoli" ( ora in "Opere", Meridiani, Mondadori, 2004, pp.1509-12): fulminanti osservazioni in cui l’ironia è temperata da una certa umana comprensione per «questo poeta innamorato della classicità che vede nella grande proletaria l’erede della classis romana», così difficile da arginare . Per quanto riguarda Pascoli, l’argomento è il discorso tenuto dal poeta il 26 novembre 1911 alle ore 15,00 al teatro di Barga, «nel mentre stesso- come specifica Augusto Vicinelli nel suo commento alle Prose, pubblicate da Mondadori, citato con una buona dose d’ironia da Pontiggia- in Libia avveniva l’avanzata su Ain Zara». Il ricavato della conferenza era destinato «Per i nostri morti e feriti»,« il pubblico che Pascoli preferisce», annota Pontiggia che comunque confessa: «raramente ho letto una prosa così viscerale e così costruita, così patetica e così ricattatoria, così capziosa e così veemente, così intollerabilmente sincera e falsa» (p.1510). I proletari non sono più gli inermes, diventano la Patria stessa, la «grande martire delle nazioni» che ora sbarca in Africa per fare la sua parte nell’"umanamento e incivilimento dei popoli». « Come arginare questo poeta innamorato della classicità che vede nella grande proletaria l’erede della classis romana' O non sono chiamati soldatini anche i classiarii e i legionari d’Italia' ». L’enorme risonanza del discorso pascoliano, lodato perfino da Croce per il contenuto «serio e la chiaroveggenza» e inviato, a stampa, a migliaia di soldati al fronte dalla «Tribuna», che per prima l’aveva pubblicato e che si augurava che fosse per i soldati « dolce e suadente come le parole della mamma», è ricordata da Pontiggia con l’imbarazzo del postero, che si identifica e dà voce con quanti, pochi «eroi del dissenso», seppero resistere all’ondata emotiva e furono allora «bollati come traditori della Patria». Comunque, secondo Pontiggia anche se «anziché giudicarlo secondo la correttezza della nostra epoca» riflettiamo sulla correttezza della sua, il giudizio non cambia: «All’appello universalistico di Marx e Engels ( «Proletari di tutto il mondo unitevi!») risponde l’appello nazionalistico di Pascoli («Guardate in alto: vi sono le aquile! ») (p.1512).


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